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Quel neonato travolto dal mare

Giorgia Linardi e Valentina Brinis Open Arms Twitter
Pubblicato il 12-11-2020

Immagini dure diffuse da Open Arms

È morto un neonato ieri sera, aveva sei mesi, era stato appena salvato dal mare insieme alla sua mamma. È morto senza lacrime tra le braccia dei volontari di Open Arms e dei medici di Emergency che sono a bordo con loro. In meno di una settimana questa missione estrema, una delle ultimissime nel Mediterraneo, ha soccorso oltre duecento persone: le ultime 111 (ne hanno appena soccorse altre 65), raggiunte ieri al largo della Libia dopo una segnalazione di Frontex, annaspavano aggrappate a un gommone quasi sgonfio intorno cui galleggiavano 5 cadaveri. Non conosciamo niente di questi fantasmi a parte le condizioni da subito gravissime di un ragazzo, una donna al sesto mese di gravidanza e due bambini, anzi uno.

Il secondo è quello che poche ore fa non ce l'ha fatta. Sono immagini dure quelle che, nel chiedere un porto sicuro, Open Arms ha deciso di diffondere in un Italia già provatissima dalla pandemia. Sguardi di terrore, volti lividi, angoscia su angoscia. Lo sappiamo. Il virus non risparmia nessuno, tutti siamo fragili, tutti abbiamo persone care contagiate, nonni esposti al rischio massimo. Eppure crediamo sia nostro dovere di umani raccontare cosa continua a succedere nel Mediterraneo centrale, dove il lavoro dei soccorritori è mosso dalla medesima pulsione etica che anima i medici in prima linea nei pronto soccorso assediati dal coronavirus. La sola idea di una classifica dei morti dovrebbe far arrossire. Il neonato senza vita su una nave carica di figli di un dio minore, la sua mamma, i migranti già condannati prima ancora di mettere piede a terra, sembrano comparse sullo sfondo del dramma che viviamo. Dimenticati dall'opinione pubblica ma prima ancora e più colpevolmente dal governo italiano che tiene le nostre navi bloccate mentre la gente annega e dall'Europa che ancora oggi continua a proporre algidi patti sulle migrazioni in cui il soccorso in mare significa Frontex, contenimento della migrazione, blocco delle Ong. 

Eppure ormai sappiamo che le famigerate Ong non rappresentano in alcun modo un fattore "attrattivo". Dall'inizio di novembre, nella totale assenza dei temibili volontari umanitari, sono sbarcate a Lampedusa almeno 2700 persone: la storia si ripete sempre uguale, come il 22 ottobre scorso, un Sos diramato via navtext e poi, il giorno dopo, i naufraghi portati a riva da un peschereccio che raccontano di un bimbo senza madre, una moglie senza marito, i salvati e i sommersi. Non neghiamo la paura che oggi rende ombelicali le priorità degli italiani. Ma proprio in questo momento di fragilità collettiva dovremmo poter capire cosa significhi perdere di colpo la sicurezza, sentire la terra che manca sotto i piedi, la vita appesa a un colpo di tosse. Per noi si tratta del presente, l'emergenza di questi mesi. Per altri è la routine. Dovremmo essere più empatici. 

Che ci piaccia o meno il fenomeno migratorio è qui per restare, è giusto che si faccia il possibile per sconfiggere la tratta di esseri umani ma finché le traversate disperate del Mediterraneo non scompariranno bisogna esserci per non sacrificare vite. Per ora, un governo italiano dopo l'altro, un proclama europeo dopo l'altro, si sono moltiplicati i propositi più o meno buoni e, di fatto, sono solo scomparse le Ong: per il resto si tenta la sorte come prima, si torna indietro e si riparte dopo l'ennesimo calvario libico come prima, si muore come prima. La fortezza Europa non gestisce le migrazioni, le respinge fingendo di non vederle. Ma il mare parla e, come in queste ore, restituisce le urla di chi muore al buio, al largo, portandosi dietro in fondo al mare i nostri principi morali e costituzionali. 

*Giorgia Linardi è ortavoce di Sea Watch Italia 

**Valentina Brinis è Responsabile advocacy di Open Arms 

Testo raccolto da Francesca Paci

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