editoriale

Vedemmia come metafora di vita

Enzo Bianchi - La Repubblica Pixabay
Pubblicato il 07-09-2020

La vite è come la nostra spina dorsale: forse nodosa, tormentata, ma è sempre in grado di stare diritta

Ecco i giorni in cui nelle mie terre di origine, le Langhe e il Monferrato, inizia la vendemmia: una forza non domabile mi spinge a fare un pellegrinaggio verso di esse, nonostante le difficoltà di deambulazione dovute al mio autunno, l’età in cui da un giorno all’altro si può migrare da questa terra tanto amata.

Un tempo tornavo in quelle mie colline tra il Bormida, il Tanaro e il Po, per vendemmiare con gli amici e vivere una festa che coinvolgeva tutti, bambini e vecchi, donne e uomini, contadini e girovaghi. Ora le cose sono cambiate: la vendemmia è meccanizzata e nelle vigne ci sono immigrati, soprattutto macedoni, esperti nella scelta dei grappoli. Con fatica essi salgono e scendono le colline e i bricchi coperti da filari, posti a una certa distanza l’uno dall’altro, quel tanto necessario per essere baciati dal sole. Ora vado in pellegrinaggio per contemplare la vite, quella pianta senza la quale non ci si sente pienamente umani. Non lo dico solo io, lo affermano i contadini e l’hanno ripreso grandi letterati come Pavese e Fenoglio.

La vite è come la nostra spina dorsale: può essere nodosa, tormentata, ma è sempre in grado di stare diritta, mostrando la sua speranza, che la rende capace di ancorarsi al terreno con radici profonde, senza essere facilmente sradicata, e di portare frutto anche dopo molti decenni. La vigna è segno dell’amore per la terra, richiede attesa prima di portare frutto, ma soprattutto richiede lavoro, comporta una fatica a volte eroica per farla crescere sulle coste ripide delle colline. Piantare una vigna è come celebrare un matrimonio con la terra, perché occorre molto tempo prima che dia frutto: essa va coltivata e curata, sempre, d’inverno come d’estate. Vigna è sinonimo di fiducia.

Scriveva Pavese: “A vedere la vite ci si commuove”. Verissimo, ma da essa si traggono anche grandi lezioni per la vita. Basterebbe osservare l’operazione della potatura a fine febbraio. La vite è spoglia, ha perso le foglie, ma contiene troppi tralci: il contadino deve allora intervenire e con sapienza discernere i tralci, contando le loro gemme; poi dare un colpo secco con le pinze, per potare i tralci giusti. E mentre in tutta la vigna riecheggia il suono del colpo, la vite “piange”, lasciando cadere a terra lacrime. Questo taglio sembra segnare la fine e invece apre misteriosamente a un futuro pieno di vita. Sì, curare la vigna è come curare la propria vita, attraverso potature e anche pianti.

Ma certo l’epoca della raccolta dei grappoli è un rito prima ancora che un lavoro. È una vera celebrazione sui pendii dei bricchi, negli anfiteatri collinari, mentre si canta, ci si chiama da una collina all’altra e si prepara in fondo ai filari la tovaglia per terra, per un veloce pasto condiviso. E già nell’aria si sente odore di mosto, che aumenta con il fresco della sera, la quale incombe e presto arriva con le sue tenebre. Il pellegrinaggio è finito, è ora di ripartire da queste terre che l’Unesco ha definito patrimonio dell’umanità. Un pensiero mi attraversa: perché è sempre più tenue il legame tra agricoltura e cultura?

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