francescanesimo

Paolo VI, amico di San Francesco d’Assisi

Antonio Tarallo Ansa
Pubblicato il 06-08-2022

Il 6 agosto 1978 moriva il pontefice

Era il 6 agosto del 1978 quando Papa Montini, San Paolo VI, si spegneva nella residenza estiva di Castel Gandolfo. Era stato il Pontefice che aveva traghettato la Chiesa nel Concilio Vaticano II; ne aveva preso il timone, dopo la morte di Giovanni XXIII. Uomo, sacerdote intellettuale, Giovan Battista Montini, amico dei pensatori, dei filosofi del Novecento del calibro di Jacques Maritain, il filosofo-inventore dei circoli tomistici; Jean Guitton, filosofo anche lui francese, “innamorato di Maria”; e poi amico di tanti artisti dell’arte pittorica e scultorea del XX secolo. Profetiche, le sue parole all’udienza degli artisti di quel famoso 7 maggio 1964, giorno della Solennità dell’Ascensione di Gesù:

“Noi abbiamo bisogno di voi. Il Nostro ministero ha bisogno della vostra collaborazione. Perché, come sapete, il Nostro ministero è quello di predicare e di rendere accessibile e comprensibile, anzi commovente, il mondo dello spirito, dell’invisibile, dell’ineffabile, di Dio. E in questa operazione, che travasa il mondo invisibile in formule accessibili, intelligibili, voi siete maestri. È il vostro mestiere, la vostra missione; e la vostra arte è proprio quella di carpire dal cielo dello spirito i suoi tesori e rivestirli di parola, di colori, di forme, di accessibilità”.

È proprio questo amore per l’arte, per la letteratura, che aveva spinto il giovane Montini - all’epoca impegnato nella vita culturale della FUCI (Federazione Universitaria Cattolica Italiana) - a scrivere, nel 1923, una recensione di un libro dello scrittore inglese G. K. Chesterton, l’autore della fortunata serie “Padre Brown”: il libro in questione aveva titolo “San Francesco d'Assisi”.

In questo scritto, il giovane Montini, oltre a una fine recensione del testo dell’autore inglese, ci offre un affascinante ritratto del Poverello: “S. Francesco è un poeta, non solo nel senso che sente e canta la poesia, ma soprattutto che vive poeticamente. La poesia è espressione immediata dell’intuizione del reale, a differenza della prosa che è discorsiva e analitica. Vivere poeticamente significa avere per molla motrice non tanto la riflessione quanto la rapida spinta dell’amore. S. Francesco è quindi un amante, nel vero senso, nel più alto senso della parola. Donde la temeraria immediatezza nel dare, nel fare, nel fidarsi, nel mettersi nelle condizioni più assurde: donde quella sua celerità impetuosa che sembra non avergli mai concesso di separare un pensiero dalla sua pronta esecuzione; quella coerenza completa fino alla riproduzione letterale ed integrale del principio con cui sostanziava ogni suo gesto, ogni suo atto. Donde ancora la sfida a tutte le compassate e opprimenti leggi del senso comune, e la creazione continua d’un’originalità individualissima, che sembra ed è follia”.

I lineamenti che il futuro Papa Paolo VI traccia in questo scritto sono davvero originali se si pensa all’anno a cui risale la recensione. Un ritratto che ha sapore di moderno, senza dubbio. Montini trova in San Francesco d’Assisi una coesione tra pensiero e atto, tra concetto e azione che - a detta dell’illustre autore - “sembra ed è follia”. Montini riesce a penetrare l’animo di Francesco con una cura - non si osa, credo, troppo - “psicologica” fuori dal comune così da poter annoverare quelle pagine del 1923 fra le pagine più belle scritte sul santo francescano.

Montini, poi, diventa Paolo VI ma non dimentica il “suo” Francesco. Basterebbe leggere la sua “Epistola di sua santità Paolo VI al reverendo padre Costantino Koser, vicario generale dell’Ordine dei Frati minori, nel volgere del 750° anno dalla indulgenza della Porziuncola, concessa a san Francesco da papa Onorio III”. Il documento è datato 14 luglio 1966: “Quella meravigliosa carità, per la quale (san Francesco) fu spinto a chiedere l’indulgenza della Porziuncola per tutti i fedeli (è) nata dal desiderio di condividere con altri la dolcezza d’animo, di cui egli stesso aveva fatto esperienza dopo aver chiesto perdono a Dio dei peccati commessi. (…) Accusandoci dunque dei nostri misfatti davanti alla Chiesa, alla quale Gesù Cristo ha consegnato le chiavi del regno dei cieli, riceviamo la remissione della colpa e la pena; tuttavia, non deve essere ritardato a ragione di ciò il percorso con cui ritorniamo a Dio”.

E sarà sempre Paolo VI a firmare - con data 24 giugno 1978 - la lettera apostolica Seraphicus Patriarcha, con la quale promulgava la nuova Regola dell’Ordine Francescano Secolare; un documento che inaugurò una nuova stagione per il francescanesimo secolare, da vivere alla luce dell’esperienza post-conciliare. La nuova Regola - dopo il “Memoriale propositi” (del 1221) e dopo le Regole approvate dai Pontefici Nicolò IV e Leone XIII - adattò l’Ordine Francescano Secolare alle nuove esigenze ed attese della Chiesa che il Concilio Vaticano II aveva delineato: “Il serafico Patriarca San Francesco d Assisi, mentre era in vita ed anche dopo la sua preziosa morte, ha invogliato molti a servire Dio in seno alla famiglia religiosa da lui fondata, ma ha attirato anche innumerevoli laici ad entrare nelle sue istituzioni rimanendo nel mondo, per quanto era loro possibile”. Questo, l'incipit della lettera.

Ma già sette anni prima, il 19 maggio del 1971, si era rivolto ai terziari francescani, riuniti nella basilica di San Pietro, in un pellegrinaggio internazionale. In questo discorso - redatto con il consueto respiro poetico proprio di Montini - il Papa fa riferimento a tre tematiche del tutto francescane: povertà; la Croce e, infine, servizio verso i fratelli. Le parole sono illuminanti e sembrano - davvero - non avere né tempo, né spazio:

“Tocca ai cristiani, tocca a voi, Terziari, fare l’apologia vera e vissuta della povertà evangelica, ch’è affermazione del primato dell’amor di Dio e del prossimo, ch’è espressione di libertà e di umiltà, che è stile gentile di semplicità di vita. È un ideale, è un programma; impone rinuncia e vigilanza, adattamento all’ambiente e al dovere proprio d’ognuno, ma è poi, in fondo, fonte di letizia, della letizia del presepio, della «perfetta letizia» francescana”.

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