religione

Card. Sako: L'Iraq aspetta il Papa

Salvatore Cernuzio - lastampa.it
Pubblicato il 15-01-2021

Il patriarca caldeo di Baghdad: 'Messaggi di pace anche per Siria e Libano'

«Papa Francesco verrà in Iraq, le precauzioni per il Covid non significano che ha cambiato idea. La gente, inclusi i musulmani, ha bisogno di una sua parola». È quasi un appello, al Papa e a Dio, quello del cardinale Louis Raphaël Sako, patriarca caldeo di Baghdad, perché non salti il viaggio del Pontefice annunciato per il 5-8 marzo 2021. Trasferta resa incerta dall’evoluzione dell’emergenza sanitaria ed eventuali problemi di sicurezza. «Faremo di tutto per accogliere il Santo Padre nel migliore dei modi», dice a Vatican Insider - La Stampa il patriarca che ha diffuso una “Preghiera per la visita del Papa” da recitare ogni domenica durante le messe.

Eminenza, l’ultima dichiarazione di Francesco è stata: «Non so se il prossimo viaggio in Iraq si farà». Verrà il Papa nella vostra terra, sì o no?

«Sì, verrà. Speriamo a marzo, come annunciato, ma naturalmente tutto dipende dalla situazione sanitaria. Se l’ha detto, il Santo Padre lo farà. In Iraq verrà sicuramente. Lui conosce la situazione della pandemia e non vuole creare danno a nessuno, ma la cautela non significa che abbia cambiato idea, l’intenzione c’è. Nei giorni scorsi, poi, è arrivata a Baghdad la delegazione vaticana per i controlli di sicurezza. Sono andati ad Erbil, Mosul, Qaraqosh».

Si può dire che il Papa verrà principalmente per i cristiani perseguitati? È una chiave di lettura corretta o una forzatura?

«È una interpretazione settaria che ci fa anche del male. Papa Francesco viene per tutti gli uomini dell’Iraq, non farà discorsi solo per i cristiani. È naturale che loro avranno un posto speciale lungo tutto il viaggio: hanno sofferto per gli interventi militari, sono stati costretti a fuggire… Ma tutti gli iracheni hanno sofferto! Quindi il Papa incoraggerà, sì, i cristiani a perseverare e ricostruire la fiducia nel futuro, ma allo stesso tempo parlerà con i musulmani sul dialogo, sul rispetto delle religioni, sulla pace. Siamo “fratelli tutti” e non solo a livello religioso ma anche politico, quindi il Papa si rivolgerà ad ognuno di noi. E con i suoi discorsi parlerà anche a Paesi vicini come Siria, Libano, Yemen che vivono le nostre stesse situazioni».

Lei ha denunciato in diverse occasioni il rischio del settarismo da parte delle comunità cristiane. Perché?

«Per i cristiani è un vero e proprio pericolo ridursi a delle sette. Le manifestazioni atroci di violenza e persecuzione del passato hanno creato un’atmosfera di paura che impedisce loro di crescere e svilupparsi. È come se fossero una minoranza super protetta e ciò li rende quasi un corpo estraneo nel tessuto sociale. Questo non può avvenire per i cristiani che hanno insito nella loro missione l’aprirsi per aiutare e creare reti di solidarietà».

Crede che anche gli aiuti economici dall’estero o molte campagne a favore dei cristiani perseguitati siano, in tal senso, controproducenti?

«L’esodo, purtroppo, ha creato una mentalità di chiedere aiuto sempre da fuori e le forme di sostentamento non danno certamente una spinta a lavorare, sviluppare sé stessi, fare qualcosa. Diciamo che è la mentalità di consumo che non aiuta, bisogna uscirne perché ora tocca ai cristiani aiutare gli altri. E già l’hanno fatto! Quando lanciamo qualche progetto, tante famiglie sono in prima linea per aiutare con il poco che hanno. Penso al terremoto a Cuba, qualche anno fa, o alla recente pandemia per cui hanno stanziato 10mila dollari. È una cifra simbolica ma pur sempre un gesto. I cristiani in Iraq oggi devono aprirsi e collaborare col governo per costruire uno Stato democratico, non settario. Devono, insomma, uscire e non aspettare che tutto venga dagli altri, ma anzi avere un ruolo attivo nella vita sociale e politica del Paese».

Dai giovani c’è una spinta al cambiamento? La mobilitazione pacifica di Baghdad dell’ottobre scorso è sembrata un segno del desiderio di partecipazione di tanti cittadini affratellati fra loro.

«Noto una presa di coscienza da parte delle nuove generazioni irachene, in particolare le donne che rivestono ruoli di leadership. Anche i responsabili di governo auspicano un cambiamento concreto. Non è una strada facile, ci sono ostacoli, prima di tutto le milizie e poi alcuni partiti settari con le loro ideologie fondamentaliste. Insisto: i cristiani possono contribuire al cambiamento, invece di aver paura e chiudersi in casa».

Ha parlato di una possibile visita del Papa a Najaf, città santa degli sciiti, per la firma con l’ayatollah Ali al-Sistani del documento sulla fratellanza umana di Abu Dhabi. Ha conferme di tale evento o rimane un’ipotesi?

«Condividiamo questo desiderio con gli sciiti e abbiamo parlato con la Santa Sede di quanto sarebbe importante una simile visita. I capi sciiti hanno un ruolo importante nella zona e il Papa è un uomo del dialogo, ha il carisma di parlare con i musulmani. Siglare un documento sulla fratellanza umana sarebbe un gesto enorme, con un impatto positivo anche per la presenza cristiana. Al momento, però, non abbiamo risposte». 

Il programma ufficiale non è ancora stato reso pubblico, ma si sa che Francesco visiterà Baghdad, Ur, Mosul, Qaraqosh, Erbil. In questi appuntamenti saranno presenti anche rappresentanti ebraici?

«Sì, abbiamo suggerito che un capo delle poche famiglie ebraiche di Baghdad possa partecipare alla celebrazione interreligiosa di Ur. Si tratta di una preghiera comune alla quale saranno presenti cristiani e musulmani, sciiti e sunniti, ma anche yazidi, mandei e via dicendo. È molto importante che la presenza di giudei sia favorita e promossa, anche per evitare il rischio di politicizzazione e ghettizzazione».

Cristiani, ebrei, musulmani, tutti insieme con il Papa. Può realizzarsi così quel sogno di padre Paolo Dall’Oglio (che lei conosce bene) di un cammino delle tre religioni monoteiste da Ur sulle tappe di Abramo?

«Più che un sogno credo che sia l’unica soluzione. Senza dialogo, senza unità, non avremo futuro. Noi siamo fratelli, nella fede crediamo in un solo Dio. Le assicuro che molti, soprattutto musulmani, aspettano una parola del genere. Negli ultimi anni in Iraq abbiamo sentito solo il clamore delle armi, il rumore della morte e della distruzione. Basta! Vogliamo la pace. I musulmani hanno sete di questo: i capi, come il popolo».

Anche perché c’è una pandemia che, come ha sempre detto il Papa, mette tutti sulla stessa barca…

«La media dei contagi in Iraq è del 3%. Il coronavirus si è abbattuto in modo lieve sul Paese rispetto ad altri, forse perché abbiamo già sofferto tanto. L’emergenza ha però unito gli uomini, ho visto una grande solidarietà tra le persone. Parlo di aiuti alle famiglie a cui mancava il cibo, di iniziative dei giovani per i bisognosi o per i bambini. Ad esempio, a Natale alcuni ragazzi musulmani si sono travestiti da Babbo Natale e hanno distribuito regali, senza distinzione di religione. L’emergenza ha suscitato un risveglio morale, molti musulmani hanno fatto cose che prima facevano solo i cristiani tra loro. Sono stati proprio alcuni sciiti e sunniti ad aver suggerito una conferenza interreligiosa alla presenza del Papa a Baghdad, dove invitare sceicchi, capi religiosi, capi tribù, partiti politici. Tutti uniti come segno di riconciliazione. Per organizzare una cosa del genere però ci vuole tempo, ma l’annuncio del viaggio ci ha colto di sorpresa».

Oltre al Covid, ci sono rischi di sicurezza?

«Al momento non c’è nessun pericolo. Poi non so se domani scoppierà un conflitto tra Iran e Usa che complicherà tutto. Mi auguro di no… Il governo prenderà ogni misura possibile per proteggere il Santo Padre. Tutti lo aspettano, tutti gli vogliono bene, anche da Siria e Libano. Venendo in Iraq è come se visitasse anche quelle terre. Perciò lo incoraggiamo: Santità, la aspettiamo!».  (La Stampa)

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