francescanesimo

La Novena di Natale– La fuga in Egitto

Padre Enzo Fortunato Archivio fotografico Sacro Convento
Pubblicato il 21-12-2020

Continuiamo il viaggio alla scoperta delle scene dell'infanzia di Gesù

Prosegue il nostro viaggio, un percorso a zig zag tra i Vangeli dell'infanzia di Cristo, con i racconti di Luca e Matteo. Dopo due episodi nei quali si era trovato in disparte, riecco san Giuseppe prendere nuovamente la scena. È a lui che spetta il delicato compito di portare in salvo la Sacra Famiglia. Con Gesù e Maria, si metteranno in fuga verso l'Egitto. Tre migranti, tre profughi, tre esseri umani in cerca di un rifugio sicuro. Un cammino, immaginiamo, fatto di fatica, ansia e paura, ma senza mai cedere alla disperazione, guidati dalla fede. Una lunga via verso la sopravvivenza, un lungo cammino verso la libertà, una traversata.

«Sono fondamentalmente un ottimista, e non so se ciò dipenda dalla mia natura o dalla mia educazione. L'ottimismo è anche tenere la testa alta e continuare a camminare. In molti momenti cupi la mia fede nell'umanità è stata messa duramente alla prova, ma non volevo e non potevo cedere alla disperazione, perché quella strada mi avrebbe portato alla sconfitta e alla morte». Tenere la testa alta, continuare a camminare. Le parole di Nelson Mandela, il suo Lungo cammino verso la libertà, sono una testimonianza che ci infonde speranza e ci trasmette un grande insegnamento: mai perdere la fede, mai cedere alla disperazione, neanche nei momenti più cupi. La segregazione razziale nel Sudafrica dell'Apartheid nel caso di Mandela, le più diverse forme di segregazione, umana e spirituale, in cui ci imbattiamo nei nostri giorni.

È quasi immediato l'accostamento tra l'episodio evangelico della fuga in Egitto a una delle principali questioni umanitarie che caratterizzano la nostra epoca: le grandi migrazioni. Un fenomeno in atto, che vede intere fette di popolazione in diverse regioni fuggire dalle aree più povere del pianeta, spesso zone di guerra, sofferenza, carestia, per cercare un altro posto nel mondo. Così migliaia, a volte milioni di anime, lasciano nottetempo le proprie abitazioni, i propri affetti, la propria cultura, costretti dalle malattie, dalla violenza, dall'indigenza, dalla fame. L'obiettivo altro non è che la ricerca di un luogo che le accolga, che dia loro un sollievo, un'esistenza dignitosa.

“Adamo, dove sei?” e “Caino, dov'è tuo fratello?”, due domande bibliche che risuonano con tutta la loro forza e che sono tornate alla mente di papa Francesco, durante la sua visita del 2013 nell'isola simbolo delle migrazioni che solcano il Mediterraneo, Lampedusa: «Tanti di noi, mi includo anch’io, siamo disorientati, non siamo più attenti al mondo in cui viviamo, non curiamo, non custodiamo quello che Dio ha creato per tutti e non siamo più capaci neppure di custodirci gli uni gli altri. E quando questo disorientamento assume le dimensioni del mondo, si giunge a tragedie come quella a cui abbiamo assistito». Le tragedie, in terra e per mare, non si contano più. Un susseguirsi di storie che ci toccano, o che dovrebbero toccarci da vicino: «Quei nostri fratelli e sorelle – prosegue papa Francesco – cercavano di uscire da situazioni difficili per trovare un po’ di serenità e di pace; cercavano un posto migliore per sé e per le loro famiglie, ma hanno trovato la morte. Quante volte coloro che cercano questo non trovano comprensione, non trovano accoglienza, non trovano solidarietà! E le loro voci salgono fino a Dio!». Chi è il responsabile di questa sofferenza, di tutto questo sangue? Quale la soluzione? Intanto, il superamento dell'indifferenza, l'apertura di cuore. Vengono in mente i versi di Pedro Salinas, la sua poesia Angelo smarrito, in cui si chiede a un angelo cosa lo sproni a darsi così tanto da fare per le anime tormentate. La risposta è la chiave di tutto: «Tu pensa a chi t'ama e saprai chi mi guida. Io sono soltanto le mani che tende colui che ama l'altro (...) Le mani di chi ama con ansia vitale terminano in angeli».

L'amore è la chiave, il superamento delle barriere, il passepartout per una serena accoglienza e convivenza. Tornare a sentirci responsabili, vicini al prossimo, a chi ha bisogno. Ci affidiamo nuovamente alle parole illuminanti di Bergoglio, pronunciate a Lampedusa: «Abbiamo perso il senso della responsabilità fraterna; siamo caduti nell’atteggiamento ipocrita del sacerdote e del servitore dell’altare, di cui parlava Gesù nella parabola del Buon Samaritano: guardiamo il fratello mezzo morto sul ciglio della strada, forse pensiamo “poverino”, e continuiamo per la nostra strada, non è compito nostro; e con questo ci tranquillizziamo, ci sentiamo a posto. [...] In questo mondo della globalizzazione siamo caduti nella globalizzazione dell'indifferenza. Ci siamo abituati alla sofferenza dell’altro, non ci riguarda, non ci interessa, non è affare nostro!». Poco da aggiungere a questo affresco di parole, di umanità e di fede.

C'è un episodio, narrato da Tommaso da Celano, che ci pare particolarmente calzante e ci dice come anche Francesco fu un “immigrato”. Egli voleva recarsi in Siria, ma fu costretto a un cambio di programma e così decise di tornare in Italia. Fu però rifiutato dai marinai di una nave diretta ad Ancona: questi infatti temevano che i viveri fossero insufficienti. «Ma il santo, fiducioso nella bontà di Dio, salì di nascosto sull’imbarcazione con il suo compagno. Ed ecco sopraggiungere, mosso dalla divina Provvidenza, un tale, sconosciuto a tutti, che consegnò a uno dell’equipaggio che era timorato di Dio delle vivande, dicendogli: “Prendi queste cose e dalle fedelmente a quei poveretti che sono nascosti nella nave, ogni volta che ne avranno bisogno”. E avvenne che, scoppiata una paurosa burrasca, i marinai, affaticandosi per molti giorni a remare, consumarono tutti i loro viveri; rimasero solo quelli del poverello Francesco; i quali si moltiplicarono talmente, con la grazia e la potenza operativa di Dio, che, essendovi ancora molti giorni di navigazione, bastarono abbondantemente alla necessità di tutti finché giunsero al porto di Ancona. Allora i naviganti compresero che erano stati scampati dai pericoli del mare per merito del servo di Dio Francesco, e ringraziarono Iddio onnipotente che sempre si mostra mirabile e misericordioso nei suoi servi».

Un miracolo che serve da lezione, un “fioretto” francescano che è un po' una provocazione e che può servire da spunto di riflessione. I marinai ritenevano san Francesco un problema, ma la sua presenza a bordo si è rivelata una risorsa. Possiamo cambiare il nostro modo di vedere le cose, di giudicare gli altri, gli ultimi, i disperati, coloro che sono in fuga: «I poveri cristi – suggerisce l'amico fraterno, mons. Felice Accroccache approdano alle nostre coste su carrette del mare sono l’incarnazione viva di Cristo (non ce l’ha detto Lui stesso?) e che quegli stessi, che siamo subito pronti ad avvertire come un problema, potranno essere un domani, anche per noi, una risorsa». Come papa Francesco, anche noi possiamo avvicinarci agli ultimi: con lo sguardo ridente e la mano tesa, come si conviene tra fratelli. L’accoglienza vera supera e spesso risolve i problemi che pure ci sono, trasformandoli in opportunità, per tutti. Confidiamo in un cambio di mentalità e di spirito di tutti noi. Per cercare di essere fari di speranza, avere il coraggio di accogliere chi è in fuga, di abbracciare chi è in cerca di una vita migliore. (Dal libro Il Natale di Maria, di padre Enzo Fortunato)

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